Counselling e storia naturale delle malformazioni
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Nell’ambito di queste condizioni di “feto terminale”, è possibile distinguere tre categorie:
- In un primo gruppo, si possono includere quei feti definiti “terminali”, ma che vengono considerati tali solo sulla base di una mancata conoscenza scientifica della “reale” storia naturale che ha causato il quadro malformativo in oggetto. In tal caso, il feto non è intrinsecamente terminale, ma è reso tale da una forma di “accidia intellettuale”, una pigrizia mentale, che impedisce a molti ricercatori ed operatori nel campo socio-sanitario di informare correttamente la coppia, riferendo dati con metodologie non rigorose e aggiornate. Tutto ciò però produce un grave processo di amplificazione del rischio nel vissuto psicologico della coppia, che, a sua volta, aumenta stato confusionale e ansia.
Dall’ansia, si arriva molto spesso al rifiuto di un bambino considerato terminale, che nella maggior parte dei casi è assolutamente sano o presenta una condizione malformativa di lieve entità o curabile in fase pre o perinatale.
Un’esemplificazione può essere data dalle malattie infettive in gravidanza, dove la mancata conoscenza della trasmissione verticale al feto, del timing gestazionale in cui questo può essere avvenuto e della non rigorosa valutazione dei follow-up a distanza, permette consulenze sul rischio teratologico che rendono “terminali” molti feti assolutamente sani.
- Un secondo gruppo, comprende quei feti considerati terminali, sulla base di una storia naturale che, per la loro intrinseca patologia, porta ad un exitus sicuro prenatale o perinatale, se non si interviene con procedure di terapia fetale invasiva o non invasiva. In questo secondo gruppo si possono includere gravi anemie fetali da iso-immunizzazione-Rh, uropatie ostruttive gravi con mega-vescica, rotture intempestive delle membrane del II trimestre, difetti del tubo neurale (come spina bifida), emoglobinopatie e forme di tachiaritmia fetale gravi, passibili di cardioversione con farmaci antiaritmici, che attraversando la barriera placentare, dopo somministrazione materna, arrivano ai recettori del cuore fetale e ottengono un effetto terapeutico importante ripristinando la normale frequenza cardiaca.
Le terapie fetali invasive hanno cambiato la storia naturale di numerose patologie fetali con un notevole aumento della sopravvivenza.
È importante sottolineare che questi risultati sono in parte dovuti al coraggio delle numerose coppie che hanno scelto di sottoporsi a procedure un tempo ancora sperimentali, invece di ricorrere all’interruzione di gravidanza. Con l’utilizzo di un approccio intravascolare, come le trasfusioni intrautero per la cura delle isoimmunizzazione-Rh e delle piastrinopatie, si è registrato un aumento degli indici di sopravvivenza dal 40% al 92%. L’utilizzo dell’approccio intramniotico, con amnio infusioni per la cura delle p-Prom nel II trimestre, amnio riduzioni per il polidramnios e inoculo in cavità amniotica di farmaci per la terapia del gozzo fetale, ha consentito la sopravvivenza del 40%-60% di questi feti. Tecniche, come paracentesi e toracentesi, hanno consentito la sopravvivenza di feti affetti da idrope non immune e di gemelli affetti da sindrome da trasfusione feto-fetale con range di 42% (approccio nelle cavità sierose). Anche per feti affetti da patologie ostruttive del tratto urinario si ha un indice di sopravvivenza del 63% con l’applicazione di procedure diagnostiche e terapeutiche integrate (vescicocentesi, pielocentesi e shunt) approccio nel distretto urinario.
Si ripete il concetto, già espresso che “l’accidia intellettuale” si arrende dinanzi ad alcune condizioni fetali considerate inguaribili, mentre una cauta ricerca di possibili terapie, eticamente guidata, cambia la storia naturale di molte patologie fetali, affrontate con discernimento scientifico adeguato e con proporzionalità appropriata al rischio/beneficio. Questi risultati sono stati ormai validati a livello nazionale e internazionale e sono diventati patrimonio della cultura della medicina fetale.
È ovvio che i criteri che hanno guidato il raggiungimento di questi risultati erano essenzialmente tre:
- La considerazione del feto come paziente da trattare con approccio individuato e personalizzato;
- Un bilanciamento etico rigoroso, che ha fatto scegliere in tutte le occasioni metodiche invasive, con rischio eticamente accettabile e proporzionato;
- Un counselling alla coppia che fosse estremamente veritiero sulle possibilità di terapia di quel feto e rifuggisse da forme di accanimento terapeutico.
- Il terzo gruppo è rappresentato da condizioni di feti incompatibili con la vita, non viabili (cromosomiche e strutturali), come triploidie, trisomie 13 e 18, forme di nanismo tanatoforo, agenesie renali bilaterali, anencefalie e displasie renali bilaterali precoci. In questo gruppo si possono includere condizioni mal formative “proiettate” alla loro “inevitabile terminalità”. La caratteristica di queste condizioni è la conflittualità oggettiva di una medicina prenatale che, non avendo la “speranza” della vita di questi feti, conclude “frettolosamente” di “non poter far nulla”, confermando che l’arte medica è ormai irrimediabilmente legata solo ad un sapere tecnico e neutro, senza scavare con gli occhi del cuore e dell’intelletto il profondo universo del soffrire e dell’umanità sofferente. Questa scienza non “condivide” e quindi non vede al di là del fatto tecnico: non “condivide e non vede livelli di interventi sulla coppia, sulle famiglie, sulle persone che aprono strade nuove con ripercussioni cliniche e scientifiche inimmaginabili.
Prof. Giuseppe Noia
Tratto da "Terapie Fetali" (Noia G.), - 2009
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