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La promessa del test prenatale non invasivo  (NIPT) basato sul DNA

La promessa del test prenatale non invasivo  (NIPT) basato sul DNA
 
Spagnolo
 

Editoriale del Prof. Antonio G. Spagnolo

Direttore dell'Istituto di Bioetica e Medical Humanities, della Facoltà di Medicina e chirurgia "A. Gemelli" dell'Università Cattolica del S. Cuore di Roma.

 


Editoriale pubblicato su Medicina e Morale 2016/4 397-401
 
 La promessa del test prenatale non invasivo
(NIPT) basato sul DNA

 

La scoperta nel sangue materno, durante la gravidanza, di cellule fetali e di DNA libero proveniente dalle cellule della placenta, espressione dell’intero genoma del feto, ha costituito una grande promessa per sviluppare un test genetico prenatale privo dei rischi che sono invece connessi con le diagnosi genetiche prenatali invasive, come l’amniocentesi o la villocentesi. Effettivamente si tratta di un test, di uno screening, indicativo della probabilità che il feto sia affetto da una malattia genetica, e non di una diagnosi, ma l’elevata sensibilità e specificità nell’indicare la probabilità di assenza di malattia cromosomica fetale rendono il test “tranquillizzante” così che viene a ridursi l’indicazione a eseguire tecniche diagnostiche invasive evitando i rischi connessi a queste tecniche. Di seguito utilizzerò l’espressione “probabilità di predizione della presenza di una malattia cromosomica fetale” piuttosto che “rischio” (= eventualità di subire un danno), che solitamente viene usato nella letteratura scientifica, in quanto non si tratta di definire un rischio che il feto possa avere o meno la malattia cromosomica (il feto o è affetto o no) ma di indicare appunto la probabilità di predizione della presenza o assenza della patologia nel feto.

Nel corso degli ultimi quarant’anni, durante i quali la diagnosi prenatale di sindromi causate da una alterazione dell’informazione genetica è entrata nella prassi dell’assistenza medica, la deontologia professionale ha sempre visto questa diagnosi come un atto medico e dunque era necessario stabilire alcune precise indicazioni alla sua esecuzione.

Inizialmente è stata l’età materna di 35-38 anni a essere identificata come criterio di accesso alla diagnosi prenatale, ma nella prospettiva sempre più eugenistica verso cui andava la società questo criterio è stato considerato troppo ampio e non sarebbe stato possibile identificare molti feti affetti da gravi sindromi malformative, e in particolare la sindrome di Down, che anche donne al di sotto di quella età potevano aver concepito. Inoltre la sola età materna esponeva troppe donne ad una diagnosi invasiva il cui risultato era tranquillizzante per molte ma le aveva esposte a rischio di aborto legato alla tecnica anche se il loro feto era poi risultato sano. Per cui si cominciarono a fare ricerche per identificare altri parametri che, oltre all’età materna, potessero indicare una maggiore probabilità di predizione di un feto affetto e dunque procedere solo in questo caso con la diagnosi invasiva per conferma. Vennero così introdotti il dosaggio di alcuni markers biochimici come l’alfa-fetoproteina nel sangue materno, dapprima da sola poi in associazione con altri markers come l’estriolo libero, l’alfa-gonadotropina corionica, l’inibina A, la PAPP-A (Pregnancy Associated Plasma Protein A) per costituire il triplo-test o il quadruplo-test o il bi-test. Successivamente tali test sono stati integrati anche con parametri ecografici per aumentarne la sensibiltà e specificità. Tutti questi test però sono stati sempre contrassegnati, in maggiore o minore percentuale, sia da falsi positivi (donne identificate con elevata probabilità di avere un feto affetto da patologia risultavano avere invece un feto sano ma si erano esposte al rischio di aborto della tecnica) sia da falsi negativi (donne identificate con bassa probabilità di avere un feto affetto da patologia che non eseguivano perciò la diagnosi invasiva ma che in realtà avevano poi un figlio affetto). Pertanto le gestanti sono state esposte dapprima all’ansia del test con i suoi falsi positivi e negativi e poi al rischio di aborto connesso con le tecniche invasive, senza contare quelle che, non adeguatamente informate sul significato del test, andavano ad abortire solo sulla base del test indicante un’alta probabilità di avere un figlio affetto. Dal punto di vista dei servizi sanitari pubblici il ricorso alle tecniche invasive di diagnosi senza indicazioni molto specifiche ha rappresentato una rilevante voce di spesa per cui ha visto di buon occhio la ricerca per identificare criteri più restrittivi di indicazione alla diagnosi. Ed effettivamente, diversi studi pubblicati negli ultimi anni indicano con chiarezza che c’è stata una sensibile riduzione delle amniocentesi a seguito dell’introduzione del test non invasivo.

Un test di screening basato sul DNA fetale prelevato dal sangue materno che promette fino al 99% di sensibiltà e fino allo 0,2% di specificità (falsi positivi), basato sulle nuove tecnologie di sequenziamento (Next Generation Sequencing) rappresenta perciò una svolta fra i metodi predittivi di una patologia genetica in vista di successivi passi diagnostici e terapeutici e naturalmente ha un impatto sulla maternità e su tutti coloro che sono coinvolti con le loro responsabilità: medici, associazioni di pazienti, decisori pubblici.

Nel corso di pochi anni lo screening si è subito diffuso in oltre 60 Paesi con un mercato che è progressivamente cresciuto dai 200 milioni di dollari nel 2012 agli oltre 3,5 miliardi stimati nel 2019. E in gran parte di questi Paesi il test è disponibile solo nel settore privato ma in alcuni Paesi europei come Regno Unito e Germania ci sono spinte ad introdurli nei servizi sanitari con la prospettiva che il costo potrebbe essere compensato dalla riduzione dell’accesso alla diagnosi invasiva ma anche con una prospettiva terribile di poter ridurre la nascita di bambini affetti da malattie genetiche scegliendo l’aborto e “risparmiando” così sull’assistenza sanitaria pubblica che la loro nascita comporterebbe (non mancano gli studi, già di diversi anni fa, che indicano, per es. in Inghilterra come il costo per ogni nascita di bambino Down evitata sarebbe di circa 38 mila sterline, mentre il costo per l’assistenza e la formazione di un bambino Down per 50 anni sarebbe di circa 120 mila sterline!)

Dal punto di vista etico, la domanda che ci si può fare, allora, è: abbiamo realmente bisogno di un nuovo, ancorché più preciso, test per identificare soggetti affetti dal morbo di Down o da altre patologie cromosomiche?

La prima considerazione da fare è che lo sforzo della scienza e della tecnologia per trovare parametri che rendano più sensibile e più specifico un test per predire l’esistenza di una patologia non si può che approvare. È in sé buono e lecito ricercare metodi che predicano in modo corretto quali donne, indipendentemente dall’età, hanno una elevata probabilità di un figlio affetto da patologia genetica, al fine di offrire loro una diagnosi prenatale, anch’essa di per sé lecita sulla base dei noti criteri deontologici e del rispetto per la salute del feto.

Tuttavia, ed è la seconda considerazione, la connotazione di eticità della offerta di questo test dipende dalle condizioni che precedono la sua applicazione e da quelle che lo accompagnano e lo seguono – supposto che dal punto di vista scientifico il test venga eseguito in modo corretto, con tutto il know-how necessario per riprodurre le condizioni che sono alla base dei risultati pubblicati nella letteratura. In Italia, ad es., le Linee-guida pubblicate dal Gruppo di lavoro del Consiglio Superiore di Sanità (maggio 2015) subordinano l’esecuzione del test alla documentata competenza dei professionisti coinvolti e all’accreditamento e qualità e dei laboratori che intendono svolgere questo sevizio.

Per ritornare alle condizioni che precedono l’erogazione del servizio, oltre alla qualità dei laboratori e degli operatori, come si è detto, occorre innanzitutto capire quale sia il fine o i fini per cui possa essere eticamente proposto. È evidente che se ci si mette nella prospettiva di alcuni autori e di alcune politiche sanitarie essere in grado di identificare precocemente e in modo altamente probabile le donne che portano in grembo un feto malato, con la conferma della diagnosi invasiva si può procedere all’aborto e alla riduzione del numero dei bambini nati con gravi anomalie genetiche. In questa prospettiva, come si è detto, anche i servizi sanitari non avrebbero esitazione a “investire” in questa tecnologia, nonostante l’elevato costo, puntando sul risparmio per l’assistenza socio-sanitaria dei bambini affetti che sarebbero nati. Ci sono però almeno due altri fini che rendono invece accettabile l’offerta del test. Il primo è che la maggiore precisione nell’indicare la probabilità di assenza di una malattia genetica permetterebbe a molte gestanti di essere “rassicurate” precocemente nel corso della gravidanza senza dover attendere di eseguire l’amniocentesi nel 2^ trimestre per la conferma, evitando soprattutto di esporre il feto ad un rischio non necessario connesso con la tecnica invasiva, tecnica che alcune madri non chiederebbero neppure di fare, avendo deciso di tenersi comunque il bambino, ma che dal test non invasivo verrebbero comunque rassicurate.

Il secondo fine è che la precoce identificazione della presenza di un bambino affetto da sindrome di Down, la patologia cromosomica più frequente, può permettere di offrire loro una prospettiva terapeutica, ancorché ancora sperimentale: recenti lavori di Diana W. Bianchi (Prenatal Diagnosis, 2013) portano dati sui possibili interventi in gravidanza per migliorare l’outcome – in particolar modo di tipo cognitivo - di questi bambini.

L’altra condizione che accompagna l’esecuzione del test è quella del counselling che spieghi in modo chiaro e senza ambiguità il significato del test. La innocuità di “un semplice prelievo di sangue”, come viene presentato dai mass-media e dalla pubblicità fatta da molti laboratori privati non deve far mettere in secondo piano il significato di un vero e proprio atto medico che il test rappresenta e per il quale occorre fornire uno specifico consenso informato. Occorre soprattutto di far comprendere alla donna che si tratta appunto di uno screening e non di una diagnosi e che in caso di un risultato di alta probabilità della presenza di patologia dovrà essere eseguito il test invasivo per avere conferma. Mentre un risultato indicativo di una bassa probabilità di patologia deve essere considerato, di massima, rassicurante per la donna, in considerazione dell’elevata specificità del test e del suo elevato valore predittivo negativo. Allo stesso modo, anche la consegna del risultato che fa seguito al test non può essere effettuata senza essere accompagnata da un counselling che spieghi il risultato, soprattutto quando è indicativo di altra probabilità che il feto sia affetto da una patologia genetica. È anche questa una condizione irrinunciabile di ogni struttura sanitaria, sia essa pubblica o privata, che volesse offrire il test. Si tratta di un’occasione per presentare tutti gli aspetti che sono connessi con il risultato del test e con le “persone” a cui il test si riferisce. Indubbiamente le scelte che attuerà la donna dopo il test altamente indicativo di patologia o dopo la diagnosi confermativa attengono alla sua responsabilità ma nel consegnare il risultato non ci si può deontologicamente esimere dal fornire tutte le informazioni sui significati che ci sono dietro una percentuale di probabilità. Il counselling post-test alla consegna del risultato è l’occasione per affrontare la questione del tabù culturale nei confronti dell’accoglienza e del supporto delle persone disabili e l’accettazione sociale e culturale della disabilità. Nel caso di malattie come la sindrome di Down in cui si fa strada la possibilità di una ricerca terapeutica da iniziare durante la gravidanza è l’occasione per offrire un’alternativa all’aborto . Mentre nel caso di malattia che potrebbero essere incompatibili con la vita, il counselling è l’occasione per offrire un accompagnamento di questi bambini e della loro madre secondo la prospettiva dell’hospice perinatale che si va sempre più diffondendo.

Ci rendiamo conto che la prospettiva sopra delineata potrebbe essere solo espressione di una ingenuità scientifica, sapendo bene che a guidare lo sviluppo dei test non invasivi prenatali (ora validati solo per le principali aneuploidie autosomiche – trisomia 21, trisomia 19 e trisomia 13 – e per una parte, delle aberrazioni cromosomiche eventualmente presenti nel feto, ma la prospettiva è quella di ottenere informazioni più ampie anche su altre patologie genetiche) c’è il perseguimento di un profitto e non certo il miglioramento della condizione dei bambini Down o con altre malattie genetiche: i test prenatali sono un grande business che coinvolge brevetti, tribunali e competizione per mercati.

Tuttavia l’esigenza di studiare l’impatto etico, legale e sociale dei test non invasivi per ragioni non meramente economiche è ben presente anche nell’ambito della bioetica: lo Hastings Center ha ricevuto un grant di 1,1 milione di dollari da parte del National Institutes of Health, per un progetto triennale di analisi etica dei next generation prenatal genetic tests per arrivare a definire delle linee-guida cliniche e creare un piano di ricerca finalizzato a migliorare la policy e la pratica.

La promessa del test non invasivo prenatale basata sul DNA si potrà realizzare, dunque, solo se saremo in grado di riportarla nell’alveo della ricerca scientifica e della deontologia professionale, mantenendo la connotazione del test come atto medico che ha l’obiettivo di beneficità e non maleficenza nei confronti del feto come paziente, per cui rimane sempre valido l’aforisma che “conoscere per curare è preferibile a conoscere per distruggere.”

 

Antonio G. Spagnolo

 

 

 

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