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Il senso della Vita nella “Terminalità”: curare e “prendersi cura” delle fragilità prenatali

Il senso della Vita nella “Terminalità”: curare e “prendersi cura” delle fragilità prenatali
 
 
 
 
Di Giuseppe Noia
Direttore Hospice Perinatale - Centro Cure Palliative Prenatali “S. Madre Teresa di Calcutta” - Policlinico Universitario "A. Gemelli” I.R.C.S.S. - Roma, Presidente della Fondazione Il Cuore in una Goccia Onlus.


 
IL SENSO DELLA VITA NELLA “TERMINALITÀ”
CURARE E “PRENDERSI CURA”
DELLE FRAGILITÀ PRENATALI
 

Confligge con la natura stessa dell’arco procreativo definire “feto terminale” una vita che inizia. Il dato biologico però non può contenere in sé tutto il significato del fatto meraviglioso di un tracciato esistenziale che viene chiamato ad attuarsi dal Creatore nella dimensione del tempo che viene concessa alla vita extrauterina. Ci facciamo aiutare da 2 frasi: una bioeticista, filosofa e antropologa come Hannah Arendt afferma: “Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare”. Un’altra frase è quella detta da Chiara Corbella, una mamma piena di amore alla vita e piena di fede: “Siamo nati e non moriremo mai più!”. Allora si comprende meglio come il concetto di terminalità vada corretto e reinterpretato con il termine “bambino incompatibile con la vita extrauterina”. Questo è il concetto sul piano biologico ma la realtà di un figlio che è presente, è compatibilissimo con la vita con la V maiuscola, intesa come realtà non virtuale ma reale. Essa è piena di un mondo di relazioni dettate dall’abbraccio globale tra il figlio e la madre, un intreccio biologico, psicodinamico e spirituale di scambi biunivoci di emozioni, suoni, parole, presenza e comunicazioni amorose che si sviluppano incessantemente tra il padre, la madre e il nuovo arrivato sin da subito. È una finestra che apre all’eternità, un destino di vita che non finirà mai.

Sulla base di questa visione della “teminalità non terminale” (sembra un gioco di parole ma nei fatti è la verità di questa relazione), le condizioni di fragilità malformativa fetale cui ci riferiamo sono quelle in cui la storia naturale genetico-strutturale è, purtroppo, già conosciuta come una condizione clinica che non potrà avvalersi di cure prenatali o postnatali che possano cambiare la sua evoluzione. Parliamo della anencefalia, dell’agenesia renale bilaterale, delle displasie renali gravi precocissime, delle triploidie, delle sindromi di nanismo tanatofaro. In tali casi però non è vero che non c’è più niente da fare: se non possiamo curare i bambini ci possiamo prendere cura di queste gravidanze perché, rispettando il progetto genitoriale della coppia, ci prendiamo cura di queste famiglie. L’idea fondante è quella che un bambino non ancora nato è sempre un figlio.

Oltre ai bambini intrinsecamente incompatibili con la vita, vi sono altre tipologie di gravi malformazioni fetali che vengono considerate incompatibili con la vita extrauterina, terminali, non dalla realtà biologica intrinseca alla malformazione ma dalla cultura del tempo, spesso soffocata dall’ignorare, dal non conoscere la condizione clinica su cui si discetta e sulla sua evoluzione, chiudendosi ai più recenti progressi della scienza prenatale e rendendo incompatibili con la vita condizioni fetali che, se curate prenatalmente, sono compatibilissime con una buona evoluzione postnatale. In questa categoria ci sono condizioni come le gravi tachiaritmie e bradiaritmie fetali, la rottura precoce delle membrane amniotiche sotto la 20° settimana (p-Prom), le gravi incompatibilità di sangue madre-feto, le idropi fetali non immuni, le gravi uropatie ostruttive con megavescica, le emoglobinopatie, l’idrocefalia isolata e la spina bifida, e tutte le malformazioni strutturali che possono essere curate sia in maniera invasiva che non invasiva sia prenatalmente che postnatalmente. È proprio questa categoria di gravidanze dove più emerge la differenza tra l’Hospice per l’adulto e l’Hospice Perinatale: nel primo la storia naturale della grave malattia cambia solo raramente, nel secondo invece condizioni considerate incompatibili con la vita extrauterina e che hanno sopravvivenze esigue (10-12% riportato in letteratura) con i trattamenti invasivi palliativi prenatali e con le terapie invasive e non invasive prenatali, arrivano ad una sopravvivenza del 72%.

Una terza categoria di condizioni incompatibili con la vita extrauterina su base culturale (non intrinseca cioè all’anomalia vera e propria) sono tutte quelle condizioni fetali che solo teoricamente possono portare a gravi anomalie del feto, attraverso una proiezione non scientifica del problema e quindi a un completo travisamento della storia naturale di quella patologia. È il caso della trasmissione verticale delle malattie infettive (rosolia, citomegalovirus, varicella e toxoplasma) o di altre patologie materne, per le quali, la non conoscenza delle storie naturali (cioè l’evolversi della patologia e delle sue conseguenze, sia nella vita prenatale che postnatale) in cui l’amplificazione del rischio non scientificamente e non rigorosamente valutato, porta a una sentenza di morte e non ad una diagnosi. Dinanzi a tutto questo mondo di ascientificità e di proiezioni amplificate sul danno attuale e potenziale del bambino non ancora nato, la scelta di “terminare” quella gravidanza (cioè la scelta di un aborto volontario tardivo) aleggia pesantemente nei pensieri e nella coscienza delle donne. La povera coppia entra in un tunnel di confusione e di angoscia dove l’ansia ingigantisce il problema esistente e prepara gradualmente il rifiuto. È per tal motivo che occorre sottolineare il peso fondante della chiarificazione scientifica che riduce l’amplificazione del rischio e salva tanti bambini. È quello che chiamiamo il “salvataggio culturale” dall’aborto da ignoranza, cioè dal non conoscere esattamente ciò che oggi la scienza ci dice e può fare.

Una risposta a questa condizione di disagio in cui si viene a trovare la famiglia che affronta una gravidanza patologica è la medicina condivisa: una sinergia operativa tra scienza, famiglie e fede, che abbraccia visivamente tali coppie, su un cammino fatto di tappe relazionali importanti, perché possano uscire dalla solitudine e dalla desolazione. In concreto, questo si traduce nel dare significato alla scelta di accompagnare il loro bambino e nel concreto esprime l’obiettivo di non silenziare tutta la progettualità di scelte, desideri e momenti fatti per quella gravidanza. Si può così ripristinare tutto il senso di amare il proprio figlio, indipendentemente dalla presenza della malattia e della sua gravità come sicuramente avrebbero fatto se quel figlio avesse avuto l’età di pochi mesi o 1 o 2 anni dopo la nascita.

È chiaro però che l’accompagnamento di un bambino incompatibile con la vita extrauterina non è un tracciato poetico di sorrisi e serenità costanti: c’è una umanità che soffre e l’accoglienza e la condivisione di questo dolore va puntellato da sostegno medico, psicologico, affettivo e spirituale; certamente, però, è un percorso che, come dimostrato anche da alcuni studi, è quello più in linea con tutto quel sistema relazionale e affettivo che lega il nascituro ai genitori, nonché, con la salvaguardia della salute materna in tutti i suoi aspetti. Per la coppia, l’accompagnamento del proprio bambino permette di non lasciare incompiuto il progetto d’amore che caratterizza quel desiderio genitoriale e di non subire il devastante impatto che, sul piano umano e psicologico, segue alla decisione di porre fine alla vita di un figlio “fragile”; il tutto nella piena consapevolezza che non si elimina la sofferenza eliminando il sofferente.

 

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